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Pinocchio e Trieste.
Ti starai chiedendo cosa c’entra Pinocchio con Trieste se continuerai a leggere ti racconterò una bella storia interessante.
A Trieste Pinocchio venne usato per sottolineare ed affermare l’italianità della città giuliana. Il 26 ottobre 1954 Trieste era italiana ma in bilico, fragile su un confine forte: “la cortina di ferro” e un passato italiano tutto da ricostruire. Così si decise di promuovere un concorso per una statua a Pescia non distante da Collodi con Pinocchio e le sue avventure come protagonista. Venne coinvolto il biscottificio Vidiz di Trieste. La fabbrica di biscotti avrebbe inserito in ognuna delle sue confezioni delle figurine. Queste andavano a completare la raccolta che spedita completa al biscottificio dava diritto a partecipare ad un concorso. Si vinceva il volume illustrato e rilegato della Collezione Mosaico delle avventure di Pinocchio, 3 moto Guzzi, 10 biciclette Cottur e tanto altro.
Da Trieste alla fine di marzo del 1953 partì una diligenza con Pinocchio, Geppetto, Mangiafuoco e la Fatina dei capelli turchini. La strana brigata avrebbe attraversato le principali città italiane, distribuendo ai bambini, assieme ai biscotti e alle figurine, una tesserina che autorizzava i possessori di dire una bugia alla settimana, senza pericolo per la lunghezza del loro naso.
Venne anche stampato un francobollo con raffigurato Pinocchio ma aveva sovrastampato il timbro “AMG-FTT”. Acronimo che significa “Allied military government – free territory of Trieste”, ovvero “Governo militare alleato – territorio libero di Trieste”.
Il francobollo fu sfortunato ad uscire fresco di stampa proprio nei giorni del passaggio all’Italia. Mentre per il francobollo stampato per l’UNIPOL, ugualmente prodotto in quel periodo è analogamente sovrastampato con AMG-FTT, il destino fu diverso, si salvó. Invece Pinocchio per quel timbro che non aveva ragione di esserci più in una Trieste italiana, lo condannò. Come per i piedi di Pinocchio, finirà in cenere.
Solo rarissimi fogli rimangono.
Il prezzo per francobollo si aggira oggi in 6000/8000 €.
Collodi lo chiamavano così e così si firmava ma non era il suo vero cognome. Carlo faceva di cognome Lorenzini e suo padre Domenico era il cuoco della ricca famiglia Ginori. In famiglia Lorenzini erano 11 fra fratelli e sorelle. La situazione in casa non doveva essere delle più semplici neanche economicamente. Spesso la mamma Angiolina (Maria Angela) Orzali, figlia maggiore del fattore dei Conti Garzoni portava Carlo ospite dei nonni materni. Forse come Pinocchio Carlo correva giù per le vie di pietra di “Collodi castello” facendo il rumore degli zoccoli di un cavallo imbizzarrito. Ma buon per lui, senza incontrare il carabiniere. In casa di gastronomia ricette e cibo probabilmente se ne parlava e il fatto che Carlo ebbe compiuto i suoi studi in seminario aiutó anche per questo. Si sa che i preti nonostante le quaresime mangiano bene.
Collodi non si risparmia neanche nel commentare la pizza dell’epoca (arriverà molto dopo la pizza che noi conosciamo) della quale lui riporta questa “recensione”: era “una schiacciata bruciata e sudicia” e lo può fare da uomo dalla pancia piena, ma questa è un’altra storia. Collodi non diventò mai un prete. Comunque anche in seminario era un prete particolare con una dispensa per leggere libri proibiti. Si applicó nella traduzione di favole dal francese. Giornalista fondatore di riviste fino a diventare lui stesso prima censurato e poi lui stesso un censore di testi. Poi i suoi studi vennero finanziati dalla famiglia Ginori che assunse come contabile il fratello.
Nel giardino della villa dalle 100 finestre dei conti Garzoni sembra che Carlo Collodi frequentasse, raccontandole le tante favole che lui conosceva, una bambina dai capelli biondi ma dagli occhi incredibilmente azzurri che poi nella storia diventó la fata turchina. Ad un incrocio dalle parti di Pescia, vicino a Collodi, c’era un cambio di cavalli locanda, trattoria, osteria dove servivano i gamberi di fiume che una volta cotti diventavano rossi. Era l’osteria del “Gambero Rosso”. Non un’invenzione ma una realtá come lo sono le ricette che in tutto il racconto sono quelle artusiane.
Mentre si legge il libro delle “avventure di Pinocchio” ci si imbatte continuamente in preparazioni gastronomiche o in qualcosa da mangiare ma la parola più frequente è “fame”. Sono gli anni della grande emigrazione degli italiani all’estero. In Italia si mangia polenta, grano e frumento dove erano protagoniste la pellagra e la miseria. Gli italiani dell’epoca ed ancora per lungo tempo saranno dei morti di fame. Non si spiegherebbe che 15 milioni di persone dal 1876 al 1915 disperati abbandonano il nostro paese. Altro che prodotti tipici regionali, tradizionali.
Dal 3 febbraio 1865 al 3 febbraio 1871 Firenze è capitale d’Italia ma poi trasloca e verrà trasferita a Roma lasciando la città toscana ancor più in preda alla miseria. Non ho mai trovato una prova che Artusi e Lorenzini si siano incontrati a Firenze nonostante le frequentazioni dei due autori, probabilmente negli stessi ambienti culturali. Forse perché anticlericale l’uno e quasi prete l’altro. Attivo patriota Carlo partecipò anche alla seconda guerra d’indipendenza. Come il fuciliere Erwin Keller. Tutto torna! Artusi in modo molto pragmatico e a basso rischio di ricevere un colpo di fucile, affermava che “l’Italia si fa in cucina”. I libri di Artusi e Pinocchio erano le due letture che l’associazione Dante Alighieri usava per conservare ma diciamo meglio, per insegnare la lingua italiana agli italiani emigrati all’estero. Ricordo che in quegli anni la più grande città italiana del mondo era New York. Il luogo che più a lungo li ha visti e continua a vederli insieme è il cimitero delle Porte Sante vicino a San Miniato dove sono sepolti tutti due.
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